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BCE: l’addio di Draghi e l’eredità a Christine Lagarde

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Lunedì 23 settembre si è tenuta l’ultima audizione in Europarlamento per Mario Draghi da Presidente della BCE. Dopo quasi otto anni di mandato – tre legislature, 30 audizioni e un totale di oltre 600 domande, come ha ricordato la neo Presidente della Commissione Affari Economici e Monetari Irene Tinagli – il Presidente uscente ha voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa, invitando i posteri a non sottovalutare il rallentamento economico dell’Eurozona, sollecitando i paesi con spazio di bilancio ad agire e quelli più indebitati ad adottare politiche prudenti, lanciando infine un messaggio ai governi affinché rivedano regole e policy diventate ormai inadatte ad affrontare il ciclo negativo in cui verte l’economia europea.

Quale la sua eredità, e cosa ci dobbiamo aspettare da Christine Lagarde? Ne parliamo rivolgendo tre domande a Giuseppe Sersale, Partner, co-gestore di Anthilia Blue e autore dei Lampi di Colore.

Prima domanda: cos’ha detto lunedì Mario Draghi?

Draghi ha sottolineato in linea generale i passi avanti fatti dall’Unione Europea e i traguardi raggiunti insieme al Parlamento, evidenziando come la situazione sia migliorata e si sia potuta evitare la deflazione. Ha poi affermato che, tuttavia, l’economia sta dando segnali di debolezza non trascurabili, superiori a quanto previsto. Ha delineato i limiti che la politica monetaria incontra in termini di spazio di manovra senza la collaborazione dei settori fiscale e governativo. Ha preso come esempio paesi extra UE, in cui le politiche monetarie hanno avuto un’efficacia diversa proprio in virtù dell’appoggio coordinato da parte del fisco e delle riforme. L’Europa è un’area non omogenea che presenta problemi strutturali, primo fra tutti l’essere unione monetaria ma non fiscale. Fattore, questo, che ha comportato l’adozione di manovre non necessariamente positive per la crescita. Draghi ha ricordato l’impossibilità, per la BCE, di autoregolamentarsi: deve essere il Parlamento a intervenire sulle disposizioni della Banca Centrale, fornendole nuovi strumenti con cui fronteggiare situazioni decisamente poco accademiche. È stato un messaggio incisivo: probabilmente non ha potuto esplicitarlo, ma un simile sollecito lascia dedurre che Draghi sia convinto che la politica monetaria stia raschiando il barile. A riprova di questo vi è il fatto che sia arrivato ad affermare che alcuni aspetti della Modern Monetary Theory (MMT) possano essere esaminati. Ancora una volta, redistribuire il reddito tra i cittadini sarebbe tuttavia compito del fisco, non della BCE. Draghi ha passato la palla al Parlamento, esortandolo a spogliare la BCE – così com’è – del ruolo di panacea universale.

Seconda domanda: se dovessimo fare un bilancio del suo operato, finirebbe in pareggio?

L’operato di Draghi può essere definito sicuramente di successo. Ha ereditato un’istituzione totalmente soggiogata ai voleri della scuola tedesca e l’ha in parte liberata. Non senza rischi: più volte ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo, sprezzante delle reazioni negative che le sue azioni avrebbero potuto far scaturire. Cosa che, tuttavia, non è mai successa. Anzi, sotto la sua guida la BCE è spesso andata oltre il proprio mandato, sdoganando degli strumenti che fino a quel momento erano da tutti considerati fuori dalle possibilità di un banchiere centrale che operava in un contesto simile. Sembra incredibile ammetterlo, ma la BCE ha saputo sorprendere gli operatori di mercato. Ha contraddetto chi era certo che non si sarebbe mai applicato il QE, che non si sarebbe mai azzardata ad acquistare asset privati. L’immagine che ne scaturisce della BCE, anche al confronto con altre istituzioni più all’avanguardia come la FED o la Banca di Germania, può risultare farraginosa. In effetti lo è, per ragioni strutturali, ma la realtà è che durante l’era Draghi sono molte di più le volte in cui la BCE ha sorpreso in positivo. La sua eredità consiste nell’aver sdoganato molti preconcetti, lasciando intendere al suo successore che non vi siano strumenti totalmente preclusi. Dal “whataver it takes” in poi, Draghi ha inaugurato un cammino libero dai dogmi. 

Quanto agli aspetti negativi, onestamente è difficile elencarli. Soprattutto perché non sapremo mai in quale misura abbia operato in autonomia e quanto invece sia stato ostacolato nelle sue decisioni. Personalmente credo che la mania generale delle banche centrali di rendere il proprio messaggio tanto prevedibile rischi di rivelarsi un’arma a doppio taglio, in cui l’azione è sempre stemperata e il mercato è reso conscio con largo anticipo di cosa debba aspettarsi. È una ricetta che nel medio termine può rivelarsi controproducente: se non si possono sorprendere i mercati, nel timore costante della loro reazione, il margine di manovra si riduce. Il mercato si assuefà al privilegio di essere informato, azzerando ogni effetto sorpresa e con esso la possibilità di compiere scelte diverse e dall’impatto potenzialmente positivo, soprattutto nel breve. È un approccio resosi necessario dalla delicatezza della situazione passata e attuale, nella quale il minimo scossone ai mercati avrebbe potuto avere conseguenze deleterie. Tuttavia credo che nel medio termine andrebbe recuperata, a livello globale, la possibilità di ritagliare un angolo d’ombra nel quale far muovere i mercati, facendo sì che gli outcome si sviluppino con una gamma più ampia ed eterogenea.

Terza domanda: che tipo è la Lagarde? Cosa dobbiamo aspettarci?

La Lagarde ha due caratteristiche. La prima è che è una politica, di grande esperienza, con una formazione giuridica. Non ha un backgorund accademico così sviluppato in termini macroeconomici, cosa che non necessariamente mina la sua capacità di gestione ma che indubbiamente rappresenta un messaggio: quello che, probabilmente, le decisioni saranno caratterizzate da un fattore politico più che ispirarsi all’impianto teorico. Il che potrebbe rivelarsi un problema nel caso in cui la situazione diventi critica: una preparazione specifica inferiore rende più insicuri, le radici politiche spingono inevitabilmente a focalizzarsi sul short term. La seconda caratteristica è che è francese, il che va ad accentuare la matrice diplomatica, fatta di accortezza e attenzione a determinate dinamiche. Nemmeno questo è necessariamente negativo, anzi: i francesi sono abili amministratori della loro immagine e reputazione sui mercati, come mostra il basso premio al rischio attribuito al loro debito. È una filosofia che controbilancia quella tedesca, improntata sul rigore. Eleggere una politica francese a Presidente della BCE vuole lanciare un chiaro messaggio di allontanamento dall’austerity tedesco-austriaca e di vicinanza a dinamiche di tipo diverso – un po’ come accadde otto anni fa con l’elezione di un italiano in piena crisi finanziaria. Un italiano dal carisma eccezionale, eletto in un momento in cui l’Italia il carisma lo aveva sotto i piedi. 

Cosa aspettarci dalla Lagarde? La politica monetaria sta cominciando a riflettere seriamente sulla possibilità di andare oltre a quello che si è fatto finora, attraverso una qualche forma di monetizzazione – dalla marginale cancellazione del debito alla MMT – tutte cose fino ad oggi pressoché inconcepibili. Probabilmente nominare la Lagarde ha voluto enfatizzare il legame con la politica, il che aiuterebbe a dare un impulso alla cooperazione tra le due come suggerito da Draghi. Ciò che accadrà dipende dalla congiuntura: se dovessimo essere investiti da un nuovo rallentamento globale, con l’attuale livello dei tassi, non solo la BCE ma anche tutte le altre banche centrali dovranno percorrere strade alternative, mettendoci davanti a qualcosa che, in questo campo, sarà rivoluzionario.