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Lunedì 20 aprile le quotazioni del Wti hanno raggiunto il minimo storico, crollando di oltre il 300% per atterrare in area negativa a -37,63 dollari al barile. Lo stesso giorno anche il Brent registrava una battuta d’arresto, diminuendo del 9% ma rimanendo sopra lo zero a 25,57 dollari al barile. Persino nel suo momento peggiore, registratosi ventiquattr’ore dopo, la quotazione del Brent si è difesa senza mai scendere sotto i 19 dollari al barile.

Confronto tra Wti e Brent, periodo 1-22 aprile 2020. Fonte: Bluegoldresearch.com

Confronto tra Wti e Brent, periodo 1-22 aprile 2020. Fonte: Bluegoldresearch.com

Da cosa dipende un simile differenziale di prezzo, trattandosi sempre della stessa commodity? Per capire ciò che è accaduto è necessario far luce su come sia strutturato il mercato dell’oro nero.

Doverosa premessa: il petrolio non è omogeneo. Le caratteristiche del greggio variano a seconda del profilo geologico del luogo in cui viene estratto e, dunque, della miscela di idrocarburi che lo compongono. In virtù di questo, il petrolio viene classificato come sweet sour a seconda della quantità di zolfo che contiene e light heavy in base alla sua densità. È considerato preferibile il petrolio sweet light, in quanto elevati contenuti di zolfo e maggiore densità rendono la raffinazione più complessa e costosa, talvolta precludendo l’ottenimento dei prodotti più sofisticati (come benzina e gasolio).

Delle decine di diverse tipologie di petrolio esistenti, sono due le varietà utilizzate quali benchmark da operatori, investitori e speculatori in tutto il mondo: il Brent e il Wti. I due prodotti presentano più differenze che analogie: il primo è il risultato di una miscela di diversi petroli estratti nel Mare del Nord, dai campi petroliferi riferibili principalmente a Gran Bretagna e Norvegia; il secondo è acronimo di West Texas Intermediate e viene estratto nel sud degli Stati Uniti (Texas, Louisiana, North Dakota). Il Brent rappresenta il riferimento per la definizione dei prezzi in Europa, Asia e Medio Oriente, coprendo circa i due terzi del petrolio scambiato.

I contratti futures di Brent e Wti sono quotati su Borse statunitensi, rispettivamente all’InterContinental Exchange di Atlanta e al Nymex di New York. Su queste piazze, com’è noto, il petrolio viene venduto al barile, ciascuno dei quali contiene convenzionalmente 159 litri di greggio, pari a circa 135 chili. I contratti petroliferi non sono scambiati come le azioni ma scadono mensilmente, in modo che il greggio possa essere consegnato agli acquirenti alla data prevista. Il prezzo di tali contratti non dipende esclusivamente dall’incontro tra domanda e offerta, ma risente significativamente di fattori geopolitici, economici e sociali. Prime fra tutte le dinamiche dell’Opec e dei suoi partner, le cui recenti spaccature interne hanno causato la guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita. Una guerra iniziata a marzo, che ha comportato il crollo nel prezzo del greggio – già provato dall’emergenza globale – e che si è conclusa solo il 12 aprile con l’accordo tra 23 Paesi di ridurre la produzione di 9,7 milioni di barili al giorno, il taglio più elevato mai concordato dall’organizzazione.

Pur essendo entrambi petroli sweet light, il Wti è da sempre considerato qualitativamente migliore rispetto al Brent, grazie al minor quantitativo di zolfo e al maggiore grado di leggerezza. Proprio per questa ragione, il Wti è stato storicamente scambiato a prezzi superiori a quelli del Brent. A partire dal 2010, però, la tendenza si è invertita. Gli Stati Uniti sono passati dall’essere grandi importatori di petrolio ad esserne i principali produttori: nel 2019 hanno registrato una media di quasi 18 milioni di barili al giorno, pari al 18% della produzione globale, superando Arabia Saudita (12,4 milioni di barili al giorno, pari al 12%) e Russia (11,4 milioni di barili al giorno, pari all’11%). Una crescita esponenziale – ottenuta principalmente grazie alla controversa tecnica del fracking – che si è riflessa in un incremento dell’offerta tale da ridurre stabilmente il prezzo del Wti rispetto al Brent.

L’inversione dello spread tra Brent e Wti avvenuta nel 2010. Fonte: Bluegoldresearch.com

Il differenziale registrato negli ultimi giorni tra i due contratti è tuttavia anomalo: circa 63 dollari al barile, più del doppio rispetto al valore massimo registrato nell’ultimo ventennio (circa 27 dollari, nell’ottobre 2011). Mentre il Brent difendeva i propri 19-25 dollari al barile, per la prima volta nella storia i venditori di contratti sul Wti hanno dovuto pagare gli acquirenti per liberarsi dei barili in consegna a maggio. Questo fenomeno è la conseguenza diretta del fermo dei trasporti, che ha comportato un collasso nella domanda globale e un ingestibile accumulo di scorte che sta mettendo a dura prova la capacità di stoccaggio, seppur in misura diversa, negli Stati Uniti e sul Mare del Nord.

Il Wti è stoccato in aree limitate degli USA, prive di sbocchi sul mare e bloccate dal lockdown che ne rende ancor più difficile e costoso il trasporto. I contratti sul Nymex sono quasi sempre sistemati finanziariamente, poiché acquistati da speculatori interessati a rivendere il contratto guadagnando sui differenziali di prezzo, più che a ricevere realmente i barili. Alla notizia che il magazzino di Cushing, in Oklahoma, avesse quasi esaurito la capacità di stoccaggio (55 milioni barili su un totale di 76), i trader si sono affrettati a chiudere i contratti – chiaramente in perdita – pur di evitare la consegna fisica del petrolio. Dall’altro lato il Brent, prezzato nel mezzo del Mare del Nord, dove lo stoccaggio delle petroliere è più ampio e accessibile, ha resistito meglio allo shock di domanda. Non va considerato completamente immune alle dinamiche che hanno colpito il Wti: anche le petroliere nel Mare del Nord si stanno avvicinando alla saturazione, senza contare che qualunque commodity potrebbe subire l’allineamento delle forze degli shortisti. Il Brent potrebbe mostrarsi un po’ più resiliente, essendo il principale benchmark per il commercio fisico di petrolio (contando pertanto meno attori interessati al suo collasso) e disponendo di un naturale accesso al mare, capace di consentire una risposta tempestiva alla ripresa della domanda globale.

Oggi gli occhi sono puntati sui prezzi dei contratti relativi alle consegne di giugno: sia il Wti che il Brent sembrano in ripresa, con quotazioni rispettivamente intorno ai 18 e ai 22 dollari al barile. Gli esperti, tuttavia, ritengono improbabile che i tagli alla produzione compensino il crollo della domanda, stimato in 29 milioni di barili al giorno in aprile (e similmente in maggio), vale a dire circa il triplo della riduzione concordata dai Paesi aderenti all’accordo Opec e comunque più del doppio se si considerano i tagli aggiuntivi di Stati Uniti, Canada, Brasile (3,7 milioni di barili).

L’economia di molti dei Paesi che hanno accettato i tagli alla produzione è fondata sul petrolio, e i danni causati dalla chiusura dei pozzi rischiano di superare ampiamente i benefici derivanti dal fermare la produzione. Nonostante l’eccesso di offerta, diversi elementi – i tempi di trasporto negli oleodotti, i costi in termini di capitale umano e attrezzature, gli investimenti necessari a riportare la produzione a livelli standard dopo un periodo di inattività dei pozzi, il rischio di perdere i contratti che autorizzano la locazione e perforazione dei terreni – rendono conveniente, per molte imprese del settore, operare in perdita per coprire debiti e costi fissi.

Secondo Scott Sheffield, CEO di Pioneer Natural Resources, se il prezzo del petrolio dovesse rimanere intorno ai 20 dollari al barile, l’80% delle società petrolifere indipendenti rischierebbe la bancarotta, con la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro solo negli Stati Uniti. “Se il prezzo si assestasse intorno ai 30 dollari”, continua Sheffield, “molte aziende rimarrebbero paralizzate, ma quantomeno il settore sopravvivrà”.