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Opa: tutto quello che c’è da sapere

A inizio anno abbiamo approfondito le dinamiche di tre Opa (Nice, Damiani, Smre) susseguitesi durante il periodo festivo. Ma che cos’è, nel dettaglio, un’Opa e come può configurarsi? L’Opa, acronimo di Offerta pubblica di acquisto, è un meccanismo disciplinato dagli articoli 101bis-112 del Testo unico della finanza (Tuf), nonché da alcune norme della Consob.

Si tratta letteralmente di un’offerta, presentata da un qualsiasi soggetto (anche privato) intenzionato ad acquistare un determinato numero di azioni (o altri strumenti finanziari) di una qualsiasi società (quotata o meno). È, sostanzialmente, un invito a disinvestire, a essere liquidati e quindi incassare, rivolto a chi possiede azioni dell’azienda target da parte di chi vorrebbe entrarne in possesso.

Chiarito il significato di offerta, va approfondito quello di “pubblica”. Per essere tale, l’offerta deve essere estesa ad almeno 150 soggetti e riguardare titoli dal valore complessivo almeno pari a 5 milioni di euro. Soprattutto deve essere comunicata alla Consob, con un documento contenente le motivazioni, i dettagli e le finalità dell’operazione. La Consob leggerà, controllerà e pubblicherà il documento, mentre la società target emanerà un comunicato in cui fornisce dettagli utili alla valutazione – dati finanziari, eventi avvenuti dopo l’ultima chiusura di bilancio – insieme al proprio giudizio (favorevole o meno) in merito all’offerta ricevuta.

Infine, l’acquisto: le azioni devono essere pagate esclusivamente in denaro. Qualora si intenda invece utilizzare come corrispettivo altre azioni, in tutto o in parte, si parlerà rispettivamente di Ops (Offerta pubblica di scambio) o di Opas (Offerta pubblica di acquisto e scambio).

Una volta effettuata la pubblicazione, in genere vale la cosiddetta passivity rule: se la società target non dichiara di voler convocare un’assemblea per intraprendere azioni difensive, deve osservare l’obbligo di non ostacolare l’Opa. Dall’altra parte, chi ha presentato un’offerta non può ripensarci: l’Opa è irrevocabile, può al massimo essere vincolata al verificarsi di alcune condizioni – per esempio, il raggiungimento di un determinato numero di azioni al di sotto del quale l’offerente non sarà più interessato ad acquistare.

Non è detto che l’offerente agisca indisturbato: qualsiasi soggetto terzo è libero di palesarsi e rilanciare, offrendo un prezzo più alto del primo, su un numero di azioni che può essere anche minore. Il primo offerente può rispondere al rilancio, con un prezzo superiore a esso e su un quantitativo di azioni non inferiore a quello inizialmente puntato. La virtuosa asta non può però dilungarsi in eterno: l’intero processo può durare dai 15 ai 65 giorni, a seconda delle eventuali proroghe concesse dalla Consob e, soprattutto, della tipologia di Opa. In base alla fattispecie, si distinguono infatti tre macro-categorie.

La prima è l’Opa volontaria. Si configura quando è l’offerente a prendere l’iniziativa, proponendo il prezzo e stabilendo il numero di azioni che vuole acquistare. Si parla di Opa volontaria totalitaria o parziale a seconda del fatto che l’acquirente punti al 100% delle azioni o a una quota inferiore.

L’Opa è invece obbligatoria quando è la legge a imporla. Nel caso in cui un soggetto arrivi, attraverso acquisti successivi, a detenere una quota del capitale azionario superiore al 30%, l’ordinamento impone che si offra quale acquirente anche di tutto il resto delle azioni. La partecipazione del 30% può anche essere indiretta: l’obbligo legale si configura anche nel caso in cui si acquistino azioni non della società target ma di altra società da cui la target è partecipata, costituendone il principale asset a bilancio (cd. Opa a cascata). La motivazione è semplice: pur non trattandosi di una quota maggioritaria, il 30% del capitale rappresenta una partecipazione di controllo, che permette a chi la possiede di nominare membri nel Consiglio d’Amministrazione, interferendo significativamente nella gestione della società e conferendo il potere di promuovere o bloccare più o meno tutte le decisioni aziendali. Per questo motivo i soci di minoranza devono avere la possibilità di vendere agevolmente le proprie azioni, qualora non gradiscano il cambio di leadership o qualsiasi tipo di interferenza nella stessa.

L’Opa residuale avviene, infine, nel caso in cui un soggetto sia arrivato a detenere il 90% delle azioni di una società quotata: in questo caso non è più questione di controllo e ingerenza di soci non graditi, si tratta invece di un problema di mercato. Il 10% di capitale rimanente non è infatti un flottante sufficiente a garantire una negoziazione regolare. Al detentore di quel 90%, la legge impone di scegliere se vendere, entro quattro mesi, una buona parte delle azioni, oppure acquistare il restante 10% (o quota inferiore). Simile istituto, seppur da diversa prospettiva e a tutela dell’acquirente, è quello dello squeeze out: chi sia arrivato, tramite Opa totalitaria, a detenere il 95% del capitale societario, ha il diritto di acquistare il rimanente 5%, entro tre mesi e purché l’abbia specificato nel documento di offerta.

Qualora l’acquirente non sia un soggetto unico, si può parlare poi di Opa di concerto. Il caso si configura quando un gruppo di soggetti – legati da patti parasociali o rapporti di controllo – effettua, anche separatamente e sulla base di accordi reciproci non necessariamente formalizzati, una serie di acquisti finalizzati a ottenere il controllo di una società. Le soglie del 30% e del 90% che fanno scattare gli obblighi legali si calcolano, in questo caso, tenendo conto delle quote complessivamente detenute dal gruppo, e l’obbligo di Opa riguarda solidalmente tutti i soggetti coinvolti.

Ogni Opa, volontaria od obbligatoria, può poi assumere due diverse forme: consensuale (o amichevole) e ostile. Il primo caso si configura quando l’azienda “vittima” di scalata si pronuncia favorevole alla scalata stessa, permettendone il proseguimento. Si parla invece di Opa ostile quando il CdA si esprime contrario all’offerta, generalmente perché non gradisce il soggetto offerente e non ha intenzione di permettergli di acquisire il titolo di socio di controllo.

È in quest’ultimo caso che possono essere attuate diverse azioni difensive, tipicamente tre. L’azienda target può chiamare in soccorso il cosiddetto “cavaliere bianco” (white knight) che presenti una controfferta volta a competere con quella dello scalatore non gradito. La società oggetto di scalata può, in alternativa, rendere l’Opa più costosa facendo salire il prezzo delle azioni – ad esempio, tramite aumento di capitale, con una conversione da azioni con diritto di voto parziale ad azioni con voto pieno, con un acquisto di azioni proprie che ne sostenga la quotazione. La potenziale acquisita può infine, ma è facile che si riveli l’ultima, controproducente spiaggia, arrivare a cedere determinate attività o rami d’azienda per ridurre l’interesse dello scalatore nei suoi confronti. Versione più scaltra – benché non sempre percorribile – di quest’ultimo espediente consiste nel cedere i propri asset più appetibili a una società amica, preferibilmente non a rischio scalata (e.g. ad azionariato non diffuso).

In Italia l’Opa esiste dal 1992. La più celebre in assoluto è la scalata di Olivetti su Telecom del 1999 – definita la madre di tutte le Opa nonché la più grande scalata nella storia del diritto italiano – finanziata con 61mila miliardi di vecchie lire. Più di recente si ricordano quella dei francesi di Lactalis sull’83% di Parmalat nel 2011 – tornata di recente in auge per il blitz che l’ha portata al 97%, preludio di un potenziale smembramento del gruppo; quella di Edizione Srl su Benetton del 2012, con cui la holding di famiglia ha acquistato la totalità delle azioni al fine di privatizzare l’azienda; quella del gruppo cinese ChemChina su Pirelli del 2015, che ha comportato l’eliminazione dell’ex azienda di Tronchetti Provera da Piazza Affari; quella del 2016 su Rcs, che ha visto contrapporsi le due cordate di Cairo e Bonomi (affiancato dai soci storici del Corriere Mediobanca, Della Valle, Pirelli, Unipol) e che ha visto prevalere il primo con il 48,8% di adesioni; quella di Heidelberg sul 55% di Italcementi, tra le più ricche con un controvalore di quasi 2 miliardi di euro; infine quella di Vivendi, che nel dicembre 2016 ha sfiorato la soglia del 30% del capitale di Mediaset (raggiungendo precisamente il 28,8%) salvo poi essere fermata dall’Agcom per violazione delle norme anticoncentrazione.

Anche tre delle aziende partecipate o finanziate dai fondi Anthilia sono state coinvolte in questo tipo di operazione. Oltre alle small cap Nice e Smre citate in apertura, partecipate dall’omonimo fondo Anthilia Small Cap Italia e oggetto di Opa, un’emittente dei fondi di private debt Anthilia BIT e BIT Parallel ha ricoperto il ruolo di “scalatrice”: nel 2017 Fri-El Greenpower SpA, controllante di Fri-El Biogas Holding Srl, presente in portafoglio BIT dal 2014 fino a giugno 2018, ha acquisito il 52% di Alerion SpA, gruppo industriale specializzato nella produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, di cui già deteneva poco meno del 30%, arrivando così a una partecipazione complessiva dell’82% circa.