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Capitalismo: crisi temporanea o fine di un’era?

Non è un buon momento per il capitalismo. Dalla Silicon Valley alle piste di Davos, dalla Camera dei Lord alle aule di Harvard, ormai aleggia quasi ovunque la sensazione che il capitalismo che ha reso l’America la potenza economica che tutto il mondo invidia rappresenti oggi la principale causa della disuguaglianza e del malcontento che logorano tangibilmente il Paese. Se la crisi del 2008 ha rivelato la debolezza del capitalismo statunitense, l’elezione di Trump e la rabbia repressa che è divampata ne hanno rese fragili le sorti. E potrebbe non trattarsi solo di una sensazione. Greg Jaffe, giornalista politico, analizza sul Washington Post il crescente timore dei miliardari americani per le sorti del sistema che li ha resi ricchi, e al contempo la frustrazione di quella fetta di popolazione che a causa loro si sente tagliata fuori dalla crescita e dal futuro del proprio Paese. Lo scrittore George Monbiot riflette, tra le pagine del Guardian, sul concetto di crescita perpetua – alla base del capitalismo stesso – e sul fatto che questa, in un sistema dotato di risorse finite, non sia perseguibile senza causare catastrofi – economiche, sociali, ambientali – nel lungo periodo. Gli fa eco la PhD in Environmental Humanities Anna Pigot su The Conversation, evidenziando come incolpare una generica “umanità” della distruzione del pianeta sia tanto inclusivo quanto poco realistico, considerato che non tutta la massa umana ha le stesse possibilità di scelta e che le responsabilità di un capo di Stato o del Ceo di una multinazionale sono ben diverse da quelle di un comune cittadino.

Persino il Fondo Monetario Internazionale, che in aprile ha presentato le prospettive di crescita globale, si è espresso in questo senso. Soffermandosi in particolare su come, negli ultimi vent’anni, sia enormemente cresciuto il potere di poche, grandi aziende, che hanno creato un distacco pressoché incolmabile in termini di potere di mercato, rendendosi quasi immuni alla competizione. Il che ha permesso loro, da un lato, di incrementare i costi dei propri prodotti pur senza un corrispondente miglioramento qualitativo o maggior investimento sottostante, dall’altro di accentrare potere economico facendone scaturire potere politico, con gli annessi rischi di lobbying e scambio di informazioni volto a censurare le opposizioni. Con buona pace di Adam Smith, Vilfredo Pareto e una stretta di mano invisibile.

E poi c’è Ray Dalio, che in un lungo post su LinkedIn si priva per un attimo dell’armatura da capitalista affermato per riconoscerne l’eccessiva e ormai anacronistica pesantezza, soprattutto per le spalle degli Stati Uniti. “Credo che tutte le cose buone portate all’estremo possano essere autodistruttive e che tutto debba evolvere o morire. Ciò vale ora per il capitalismo” scrive il fondatore di Bridgewater, prendendo le distanze sia dal parterre imprenditoriale, secondo lui non più in grado di dividere la torta economica, che dai socialisti, incapaci di farla lievitare. Dalio utilizza linee e istogrammi per dare forma alle proprie riflessioni: da decenni la crescita del reddito reale negli USA è scarsa o inesistente, e il divario di ricchezza tra il 40% della popolazione che guadagna di più e il 60% che guadagna meno è il più alto dagli anni ‘30, quando si realizzò che il celeberrimo 1% fosse più ricco del restante 90%. Il tasso di mobilità economica statunitense, ovvero sia la possibilità, per chi appartiene alle fasce inferiori, di migrare in quelle superiori, è tra i peggiori del mondo sviluppato (insieme a UK, Italia e Francia e al contrario di Finlandia, Norvegia e Danimarca). La ricerca del profitto, secondo l’imprenditore, ha innescato un circolo vizioso che si auto-alimenta fagocitando quella materia – in termini di reddito, ricchezza e opportunità – che dovrebbe invece colmare il gap tra chi ha tutto e chi quasi niente. Il denaro risulta così intasato nella parte superiore, dove chi ne ha può facilmente ottenerne altro, a discapito di chi cade vittima dei parametri per l’accesso al credito e dell’atteggiamento omertoso del Governo. Per Dalio, la disparità di ricchezza, se associata a disparità di valori, rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale per il Paese, capace di generare conflitti interni indebolendo l’economia e minando la potenza degli Stati Uniti rispetto ai concorrenti globali.

Ne parliamo prima con Giuseppe Sersale, Partner e co-gestore di Anthilia Blue, approfondendo gli aspetti macroeconomici della riflessione, e successivamente con Paolo Rizzo, Partner, gestore di Anthilia Red e gestore di Anthilia Small Cap, per un focus sui riflessi aziendali.

Dalio sostiene che il QE e misure affini abbiano apprezzato le attività finanziarie arricchendo chi le possedeva e aumentando il divario con coloro che non potevano permettersi di acquistarle. È andata così?

Sicuramente sì. L’impatto del QE è stato più finanziario che reale: ha aumentato la domanda di asset liquidi favorendo chi ne aveva a disposizione. Di conseguenza ha arricchito chi era più vicino ai flussi, che, potendo beneficiare anche di una piccola frazione, ne ha potuto trarre redditi rilevanti. Chi è fisiologicamente più lontano dalla giostra finanziaria e vicino all’economia reale fa molta più fatica ad avvantaggiarsene, ammesso che riesca.

Era una conseguenza inevitabile?

Sì. La realtà è che la finanza parte da presupposti utili, ma inevitabilmente si ritrova a confondere lo strumento finanziario con il fine. Il credito in sé è una cosa positiva: se però viene utilizzato non per finanziare attività produttive ma per alimentare il processo degli utili anche quando le attività non sono più profittevoli, può trasformarsi in una bolla. E la ricerca di profitto in un danno all’economia reale. Questo succede quando si finanzia qualcosa che risulta profittevole solo perchè levereggiato ai massimi: il debito sostiene l’attività produttiva, di conseguenza i profitti aumentano, ma alla fine del ciclo ci si ritrova in una situazione per cui, per ottenere un incremento dell’1% dei profitti, il debito deve raddoppiare. Lì si è vicini allo scoppio della bolla.

È successo solo negli Stati Uniti?

Al contrario, anzi. Gli Stati Uniti sono il Paese che è intervenuto per primo con il QE, quello in cui gli effetti della manovra sull’economia reale sono stati più rapidi ed evidenti. Al contrario di chi si è mosso in ritardo, leggi Europa, o di chi l’ha fatto in quantità inizialmente insufficienti, leggi Giappone, ottenendo un risultato molto più finanziario che reale. In Europa è molto visibile: il QE è terminato – al momento c’è solo reinvestimento – eppure i tassi sono ancora negativi. Questo dice molto sulla prospettiva percepita dal mercato dell’attività economica europea.

Dalio accusa i politici di focalizzarsi molto sui bilanci pubblici e poco sugli investimenti.

Sicuramente è vero, e non solo negli Stati Uniti. I bilanci pubblici sono purtroppo un ottimo strumento di campagna elettorale. La democrazia, per definizione, assoggetta ogni decisione all’obiettivo di mettere d’accordo diverse correnti, con il risultato che molto spesso le scelte operate in campo economico sono il frutto di estenuanti – e per nulla efficienti – negoziazioni politiche. Il principale problema è che molto spesso gli investimenti insensati – ovvero sia incapaci di ripagarsi nel medio termine e adatti a produrre solo debito – sono popolari. Di conseguenza la politica odierna, che sta diventando sempre più short term, sempre più comunicazione e sempre meno azione, si fossilizza su investimenti improduttivi riducendo lo spazio fiscale. La misallocazione delle risorse e del capitale è forse il problema più grande: la domanda non è tanto se prediligere i bilanci pubblici o gli investimenti, la domanda è anche quali investimenti sia ragionevole prendere in considerazione.

Dalio afferma che la FED abbia ancora poco spazio di manovra e che sia necessario che le manovre monetarie che residuano si coordinino con quelle fiscali. Ha ragione?

La FED ha poco spazio di manovra anche se ne ha più di altri, BCE in primis. Siamo in un ciclo maturo, i tassi sono arrivati arrancando al 2,5%, il bilancio della FED è molto elevato, l’arsenale di Powell effettivamente è quasi vuoto. Tuttavia non va sottovalutata la ricerca di nuovi strumenti: oggi si pensa che la FED possa utilizzare soltanto le manovre tradizionali che tutti conosciamo, ma ha anche il compito di valutarne di nuove. Anche perché l’altra freccia al loro arco, ovvero sia il coordinamento con il Governo suggerito da Dalio, dal punto di vista teorico è decisamente fattibile e auspicabile. A livello pratico, però, maggiore coordinamento può tradursi in maggiore dipendenza, e quindi in politiche che vadano più incontro al consenso dell’esecutivo che allo sviluppo macroeconomico di medio periodo. Non va dimenticato poi che, per quanto la FED sia oggi indipendente, non è del tutto immune da pressioni politiche, influenze e stress per il proprio rischio reputazionale.

Passiamo alla parte aziendale con Paolo Rizzo. Dalio sostiene che il capitalismo abbia innescato un circolo vizioso che favorisce poche grandi aziende a svantaggio di tutti gli altri, dai lavoratori all’economia stessa.

È assolutamente vero. Tuttavia è necessario partire da una prospettiva storica: nella storia dell’umanità c’è sempre stato un grande divario di ricchezza tra le persone. Solo in un periodo c’è stata l’illusione che questa realtà venisse meno, ovvero sia nel dopoguerra, quando per 10-15 anni si è beneficiato dello sviluppo demografico, delle nuove tecnologie e cure disponibili. A inizio anni ‘70 questa situazione è entrata in crisi, e la soluzione è stata quella del debito. Per i governi europei pubblico, per quelli anglosassoni privato. Non ha funzionato: da inizio anni ‘80 in poi il divario è andato crescendo, e oggi ci ritroviamo in una situazione molto simile a quella precedente la guerra. Abbiamo vissuto 25 anni di illusione e stiamo tornando da dove siamo partiti.

Perché questa regressione?

Quel sistema era insostenibile. Parte della ricchezza era dovuta al fatto che il fattore lavoro fosse diventato importante. Questo concetto è stato demolito prima dalla globalizzazione – che per anni ha reso possibile spostare business e produzione nel Far East e dintorni – e poi, passata questa ondata, dalla crescente importanza della tecnologia. Che in questa fase, a tutti gli effetti, distrugge lavoro. Così come è sempre avvenuto durante ogni rivoluzione tecnologica, a partire da quella industriale di fine ‘700. In quel caso, però, il lavoro umano è stato dapprima sopraffatto e poi nuovamente rivalutato. La rivoluzione tecnologica a cui stiamo assistendo oggi riduce chiaramente l’importanza della forza lavoro umana, ma non è altrettanto chiaro se e come questa verrà ripristinata.

Potrebbe non succedere?

Il trend è abbastanza eloquente. Prendendo quale esempio l’industria tessile, negli anni ‘80 era necessario un uomo per ogni macchina, negli anni ‘90 uno ogni dieci, oggi ne serve uno ogni 100. Nel 2022, con l’industria 4.0, basterà un uomo ogni 1.000 macchine. Con la generazione successiva, quella in cui le macchine saranno in grado di interagire, comunicando tra loro o con l’utilizzatore finale, di uomini non ne serviranno più. Basti pensare ad Adidas, che in un negozio a Londra ha iniziato a produrre scarpe in resina stampate in 3D, facendole configurare direttamente dal cliente. Forza lavoro umana richiesta? Zero.

Da cosa è dimostrata la perdita di importanza del lavoro umano?

Dalla mancanza di inflazione salariale. In qualsiasi altra epoca storica, in presenza di un tasso di disoccupazione del 3,5% e di partecipazione al lavoro del 68% – come gli Stati Uniti oggi – l’inflazione salariale è schizzata alle stelle. Questo perché le aziende avevano bisogno di lavoratori e dunque erano disposte a pagarli di più. Oggi l’inflazione negli Stati Uniti è al 3%. Il che indica che c’è sempre meno bisogno della forza lavoro umana e che una grossa componente della stessa svolge impieghi non qualificati: fa consegne per Deliveroo, lavora per Amazon, prende ordinazioni al Burger King. Questo comporta che il divario tra poveri e ricchi aumenti sempre di più, non a causa della disoccupazione ma, paradossalmente, tra chi lavora.

Il potere economico genera potere politico. Qual è il rischio di lobbying da parte delle odierne regine del capitalismo?

Il rapporto di forza tra le grandi multinazionali e gli Stati è completamente cambiato. Fino a vent’anni fa le multinazionali erano sì in grado di influenzare gli Stati con il lobbismo, ma il potere finanziario dei governi era nettamente superiore a quello di qualunque grande azienda. Oggi, le prime 800 aziende industriali dell’area Euro fatturano complessivamente oltre 9 triliardi, 1.15 volte il PIL dell’Eurozona, che è pari a circa 8 triliardi. Qui si inserisce l’altro fenomeno che va a peggiorare il divario di ricchezza.

La crescente dimensione delle aziende.

Le aziende stanno diventando sempre più grandi, arricchendo un sempre più ristretto numero di persone e impiegando sempre meno lavoratori. Il che comporta che tutte le piccole e medie aziende artigianali, che oggi garantiscono un certo livello di reddito agli imprenditori e ai propri addetti, scompariranno. Non perché non facciano bene il proprio lavoro, ma perché, in primo luogo, non possono sostenere gli investimenti in tecnologia realizzati dai loro concorrenti più grandi. In secondo luogo, e di conseguenza, sono più inclini ad accettare di essere fagocitate da queste ultime, adeguandosi, spesso per non perdere il posto, a condizioni economiche svantaggiose. Il che distrugge la ricchezza che avevano creato e anche quella che avrebbero potuto continuare a creare.

Cosa si può fare per arginare questo fenomeno?

Di praticabile ed efficace? Al momento, nulla. Idealmente sarebbe necessario che tutti i Paesi – quantomeno dell’Eurozona – concordino delle politiche fiscali e di bilancio. Le prime perdono però di senso in mancanza di completa omogeneità: finché esisterà un Paese estero in cui le aziende possano trovare più conveniente trasferire il profitto, lo faranno. La cosa più logica sarebbe una politica fiscale esattamente contraria all’Irap, che preveda l’applicazione di un’aliquota inferiore al crescere del numero dei lavoratori. Questo però ha un effetto negativo: incentiva a ridurre gli investimenti in tecnologia per via del beneficio fiscale derivante dall’impiegare più personale. Il che crea, all’azienda in questione, uno svantaggio competitivo rispetto a una concorrente, dall’altra parte del mondo, che non godendo di quel beneficio fiscale sarà spinta a investire in tecnologia. Nel giro di cinque anni questa sarà in grado di erodere la quota di mercato della prima, se non di acquisirla. Con riferimento alle politiche di bilancio, invece – posto che vi siano i fondi per metterle in atto in modo non limitato, vedi il reddito di cittadinanza – la cosa migliore sarebbe adottare il salario minimo: la famosa soglia dei dieci euro all’ora, ad esempio. Certamente giusto, ma così facendo si correrebbe il rischio opposto a quello di prima, ovvero sia che le aziende spingano più che mai sulla tecnologia per diminuire la forza lavoro umana a loro necessaria, producendo un effetto nullo o peggiorativo sul divario di ricchezza.

Chiediamo a entrambi: il capitalismo è quindi davvero così pericoloso?

Paolo Rizzo: “Il benessere generale e lo sviluppo registrati durante l’affermazione del capitalismo quale forma sociale non si ritrovano in nessun altro periodo storico. Persino nelle epoche dei grandi imperi, ben pochi riuscivano a vivere dignitosamente e in salute superando i quarant’anni. Il capitalismo è il più efficiente sistema economico della storia umana; tuttavia è un sistema che funziona esattamente come la natura: è selettivo. A differenza di quella naturale, la selezione operata dal capitalismo progredisce in maniera geometrica e la sua evoluzione procede molto più velocemente”.

Giuseppe Sersale: “Chi l’ha studiato prima di noi afferma che il capitalismo sia soggetto a crisi periodiche, insite nella sua natura. In passato queste crisi erano in grado di ripulire l’intero sistema; oggi la moderna teoria economica non vuole considerare i costi sociali della crisi, e dunque tende a smussare questi cicli periodici”.

Una crisi oggi sarebbe insostenibile?

Paolo Rizzo: “Il debito globale è talmente alto, e l’economia mondiale talmente levereggiata, che non sosterrebbe il verificarsi di una crisi, esattamente come un’azienda con un rapporto PFN/Ebitda troppo elevato. La leva finanziaria è ciò che rende dirompenti gli effetti di una crisi, abilitandola a scardinare il sistema finanziario. Quella del 2008 è stata superata grazie alle iniezioni di liquidità inaugurate dagli Stati Uniti, ma dubito che, se si verificasse di nuovo, le stesse manovre avrebbero una simile efficacia. Il sistema è oggi molto più indebolito dalle disuguaglianze, dall’inarrestabile spinta tecnologica e dall’eccessivo livello di debito”.

Giuseppe Sersale: “Qui si inserisce il discorso di Dalio, quando afferma che a un certo punto la Modern Monetary Theory (MMT) dovrà essere applicata, e che parte di tutto questo debito dovrà essere monetizzato poiché tutte le alternative saranno state percorse. Alcune economie (come il Giappone) si troveranno costrette a pianificare quella che sarà una periodica e costante creazione di moneta, ben diversa dalle blande e temporanee iniezioni del QE. Riuscirà, un sistema economico fragile e atipico come questo, a gestire il processo con criterio, o si farà travolgere dall’euforia dell’helicopter money?”.