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Lo spread: tra mito e realtà

Di Giuseppe Sersale

La fiammata di volatilità  osservata sugli asset italiani nelle ultime settimane ha riportato alla  ribalta i temi dello  spread e dell’impatto che le  turbolenze dei mercati hanno sulla  situazione economica  e politica nazionale. L’ampia diffusione dei social network,  con la  loro tendenza all’esasperazione dei concetti, ha favorito la circolazione, non solo in rete, di ogni sorta di affermazioni sul tema, tra cui le  principali sono:

  1. lo spread è un pretesto usato dall’establishment per cercare di perpetuare il proprio controllo sul paese. Corollario: ora che c’è un Governo sgradito all’establishment, un aumento dello spread ottiene risalto mediatico,  mentre prima esso passava sotto  silenzio.
  2. lo spread è  un ricatto dei mercati all’Italia per costringerla ad adeguarsi al volere dell’Europa, e in particolare, della Germania
  3. lo spread non è un problema perché il suo livello è determinato dalla BCE attraverso il suo programma di acquisti di titoli di stato.  Corollario: l’ECB ha il dovere di sottoscrivere i titoli di stato Italiani

Approfittando del fatto che la situazione si è, almeno in parte, normalizzata, vorrei provare a sfatare alcuni di questi miti, senza per questo cercare di tirare l’acqua al mulino di questa o quella parte politica.

Con la parola spread, si indica il  differenziale di rendimento tra i titoli obbligazionari di 2 diversi emittenti. Lo spread di cui parliamo in questa sede è il  differenziale tra i Bund tedeschi e i BTP emessi dal Tesoro  italiano.  Di spread BUND/BTP se ne possono calcolare diversi, uno per ogni scadenza, ma tipicamente ci si riferisce allo spread tra obbligazioni decennali, un po’ per la sua natura di “benchmark” di rendimento, un po’ per la maggior volatilità rispetto  ad  altre  scadenze (i mercati cercano sempre qualcosa  di “tradable”).

Il  significato dello spread  è semplice.  Questa variabile indica infatti il  premio, in termini di rendimento, che la  comunità degli investitori richiede, ad un dato istante, per investire in un emittente come l’Italia, ritenuto  più rischioso rispetto all’emittente considerato  il più solido dell’ Euro Area. Quando, per un qualsiasi motivo, il mercato percepisce un aumento del rischio nel detenere titoli del  Tesoro italiano, lo spread sale. Viceversa, quando il rischio percepito  scende, lo  spread si contrae.

Naturalmente,  come tutte  le  variabili finanziarie, lo spread, oltre ad essere un indicatore dell’apprezzamento di un certo  asset, è uno strumento di trading.  In altre parole, gli  operatori se lo scambiano,  cercando di trarne profitto.

Inoltre,  come accade per moltissime variabili finanziarie, variazioni,  anche significative, dello spread, possono avere effetti trascurabili sul ciclo economico in caso di durata limitata, mentre esse possono avere un impatto considerevole, in caso di periodi estesi,  e/o entità  abnormi.

Ogni volta che lo spread si muove significativamente al  rialzo, i media cominciano a brulicare di calcoli dell’impatto dei vari livelli di spread su mutui, sui prestiti e sull’economia in generale. Si tratta, a mio modo di vedere, di esercizi di stile che lasciano il tempo che trovano. Perché?

Perché gli effetti dello spread su un economia sono troppo complessi perché un modello  possa catturarli con una benché minima precisione. Il fulcro di queste elaborazioni consiste nel ribaltare sui tassi richiesti per  i mutui di nuova erogazione l’aumento derivante dall’impatto dello spread.

Ma un rialzo  ampio e duraturo dello spread andrà a impattare in misura variabile sul costo di finanziamento di ogni istituto bancario in misura  variabile in funzione della  sua solidità. Le banche più sane vedranno il loro costo della loro raccolta salire (obbligazioni emesse a tassi più  alti,  remunerazione della raccolta in rialzo, etc),  e  ciò impatterà non solo sulle condizioni offerte alla clientela, ma  ridurrà anche la loro capacità di impiego. Quelli meno solidi potrebbero vedere il loro accesso  al mercato  dei capitali seriamente compromesso, cosicché la loro capacità di erogare mutui potrebbe finanche azzerarsi, a causa di una crisi di liquidità (Dio  solo  sa  se recentemente ne abbiamo  avuto abbondanti esempi). Le banche estere  saranno meno impattate,  ma applicheranno ai mutui verso la clientela  italiana un margine superiore, per  il mero fatto  di erogare credito  in un paese a maggior rischio.

Supponiamo che la situazione sullo spread si deteriori a tal punto da causare un inasprimento significativo delle condizioni di erogazione dei mutui e di altri finanziamenti (una condizione assai distante da quanto osservato in questi giorni – sia chiaro). Quest’inasprimento avrà un impatto  sul  settore immobiliare (meno acquirenti), i prezzi si indeboliranno, con effetti sia sul reddito  disponibile dei cittadini, sia sui bilanci bancari (calo di valore delle garanzie), con conseguente ulteriore deterioramento delle condizioni finanziarie. Stesso discorso vale per le aziende. Naturalmente questi sviluppi possono avere un effetto di ritorno sullo spread, attraverso un numero infinito di canali (deterioramento delle finanze pubbliche, rallentamento ciclico, fuga di capitali dal paese).

Un serio episodio  di esplosione dello spread è, quindi, un viaggio del quale  è  estremamente difficile  calcolare il  punto d’arrivo. Ne consegue che misurare l’impatto di un dato livello dello spread sull’economia operando un’ analisi statica è come pianificare una scalata ad una vetta basando la valutazione del clima sulla situazione attuale.

Ciò premesso, ci si può chiedere se fosse interamente giustificato il livello di allarme raggiunto nelle scorse settimane dagli operatori finanziari sulla scorta dell’episodio osservato. A che livello lo spread diventa effettivamente preoccupante?

Anche questa è una domanda per la quale è impossibile trovare una risposta esatta.
Supponiamo di tornare negli anni ‘90 e di essere di ritorno da un viaggio di 2 settimane in Alaska, durante il quale non abbiamo avuto la possibilità  di comunicare con casa. Riceviamo, sul nostro Nokia, un SMS: nostro figlio ha 38.5 di febbre.  Di per sé, non è una notizia spaventosa. Chi non ne ha avute di simili,  di tanto in tanto? Ma siamo veramente in grado di valutare la salute di nostro figlio sulla base di quest’unico indice? No. E’ necessario conoscere almeno in parte anche il contesto. Se stamattina nostro figlio aveva un po’ di mal di gola e qualche linea di febbre, e  ora sono le 18,  è un decorso normale. Se mezz’ora prima era fresco, ci preoccupiamo un po’:  come mai una salita così repentina? Se è tutta la settimana  che si ingozza di tachipirina e la febbre non accenna a scendere, anzi sale, è il caso di fare qualche indagine seria.
E così vale anche per lo spread. Il  livello di 200 era tutto sommato un buon segno a febbraio 2014, venendo dai  300 basis points di sette  mesi prima e dai  540 del 2014. I 205 bps, nella  primavera dello scorso anno,  hanno prodotto un po’ di nervosismo:  era salito di 100 bps in 6 mesi. Ma l’approdo a 205 del 25 di maggio ha avuto tutt’altra gravità: era salito di 70 bp in due settimane e ne ha fatti altri 70 in due sedute. Il tasso btp a 2 anni era rimasto sotto  lo 0.1% per tutto il  2017. La scorsa settimana ha superato il 2.5%, salendo dell’1.8% in una sola seduta. Il maggior livello di allarme rispetto al 2017 era pienamente giustificato: era la  tendenza ad essere preoccupante.

Da che mondo è mondo ogni coalizione di Governo cerca di attribuirsi i meriti delle congiunture positive e di scaricare sugli altri la colpa di quelle  negative. Oggi che esiste, è così anche con lo spread. Ma questo  gioco delle parti non deve indurci a fare di ogni erba un fascio.

I mercati, poi, di per sé, non sono ne buoni ne cattivi. Idealmente, la loro  funzione sarebbe di allocare le  risorse efficientemente. Poiché cercano il  profitto, gli investitori finiranno con il finanziare le attività solide, e abbandoneranno invece quelle inefficienti e improduttive, che verranno cosi eliminate. Ovviamente a questa attitudine spietata dei mercati finanziari vengono applicati, dalle autorità, una larga gamma di correttivi, tanto più robusti, quanto più rilevanti sono gli aspetti sociali delle attività finanziate. Sussidi, sgravi, incentivi e vari altri metodi vengono impiegati allo scopo di canalizzare le risorse finanziarie  verso le attività che per un motivo o per l’altro si vogliono sostenere, e per attenuare i costi sociali dell’eliminazione di quelle che non hanno più motivo di esistere.

Con i loro difetti, mercati e speculazione costituiscono comunque un mezzo estremamente efficace e flessibile  per fare incontrare risparmio e domanda di capitale. Purtroppo,  come tutti i creditori, i mercati tengono d’occhio i debitori e tendono a punire quelli che ai loro occhi hanno comportamenti poco virtuosi. Esattamente come fanno le banche, che monitorano l’attività delle aziende e prendono provvedimenti a fronte di attività che mettano in pericolo il capitale.

E poi naturalmente, esiste la speculazione, intesa come sfruttamento dei disallineamenti tra prezzo e valore di un’attività per produrre profitti finanziari. Quando gli investitori prendono di mira i titoli di stato italiani, causandone il crollo con le loro vendite torrenziali, si condanna quest’attività al nono girone dell’ Inferno dantesco. Ma parliamo di speculazione anche quando le banche comprano ingenti quantità  di BTP utilizzando i  finanziamenti di ammontare illimitato, a tasso zero, offerti allo scopo dalla BCE. Non si può condannarla  in un caso e accettarla, anzi sfruttarla, in un altro!

Con la fase di allargamento dello spread, i mercati ci hanno bruscamente segnalato che non gradivano l’allocazione delle risorse implicita nel programma del Governo del Cambiamento.  E’ la  loro opinione, e non un assioma.  Ma,  dopo aver preso da  loro a prestito oltre 2.3 trilioni di Euro, noi debitori ne dobbiamo tenere conto. Il ché non vuol dire accettare supinamente il loro giudizio. Ma inveire contro la  presunta dittatura dei mercati è inutile. Quel che serve è mediare tra  le  loro esigenze e i nostri fini, magari illustrando meglio gli aspetti più controversi del  programma,e dimostrando flessibilità. Chiunque faccia un investimento finanziario pretende dal  gestore un atteggiamento del genere, e non accetterà  mai, in luogo delle  spiegazioni, autoproclami di sovranità da  parte del  prenditore.

Ugualmente, non è corretto identificare il mercato con gli “istituzionali esteri”. Se è certo che questi hanno venduto in massa, durante la crisi, è  altrettanto evidente che gli investitori italiani (titolari del 65/70% di market share dei titoli di stato italiani, secondo alcune statistiche) non hanno comprato.

Oltre ciò, respingere le conclusioni dei mercati quando non risultano a nostro vantaggio è un atteggiamento ipocrita. Quando lo stato depresso dell’economia europea, e le misure di politica monetaria attuate dalla BCE hanno fatto sì che i mercati si comportassero nello stesso modo con l’Euro, nessuno ha fiatato, perché ci faceva comodo, in quanto recuperavamo competitività. E alcuni di quelli che rigettano “la dittatura” dei mercati sono gli stessi che vorrebbero uscire dall’Euro per poter tornare a svalutare.

E veniamo al  discorso del  programma di acquisti della BCE. Così come è stata concepita, la  Banca Centrale Europea ha il  divieto assoluto di esercitare il  monetary financing ,  ovvero  di finanziare direttamente il  budget fiscale  di un paese membro. E’ un divieto che ha la  sua origine nell’esperienza passata,  quando l’abitudine di finanziare la  spesa pubblica tramite emissione di moneta ha contribuito a causare episodi inflattivi di portata storica.

La disponibilità di una Banca Centrale pronta a finanziare qualsiasi spesa fiscale e ad acquistare quantità illimitate di debito pubblico è il  sogno proibito di qualsiasi Governo. E’ esattamente per evitare queste situazioni che si è affermato il  principio di indipendenza delle banche Centrali dalle  interferenze della politica.
Con l’aggravarsi della crisi del  debito  europeo, la BCE ha dovuto destinare risorse  crescenti a sostegno del  mercato  obbligazionario dell’ Eurozona,  per evitare che il  gonfiarsi del  premio al rischio sui vari emittenti portasse ad una deflagrazione dell’Euro.  Inizialmente si è mossa con misure indirette (LTRO), cercando di fornire al  sistema bancario risorse e incentivi per acquistare il debito dei vari emittenti sovrani europei in difficoltà. Quando queste misure si sono rivelate insufficienti,  l’Istituto di Francoforte,  superando le  perplessità di alcuni paesi membri, ha predisposto schemi che prevedono l’acquisto diretto dei bonds (l’OMT e successivamente il QE). Aggirare la norma sul divieto di monetary financing non è  stato facile. Il  risultato è stato  ottenuto stabilendo che i programmi di acquisto non hanno il fine di finanziare l’emittente, ma di ripristinare il canale di trasmissione della politica monetaria, danneggiato dalla crisi. Ovviamente, perché l’escamotage godesse di un minimo di credibilità, si è dovuto dotare le  misure di regole ferree. L’accesso all’OMT è concesso solo in presenza di un programma di rientro concordato con l’ESM, la cui osservanza è condizione necessaria per ottenere il  supporto. Gli acquisti previsti dall’APP (ovvero  il Quantitative easing della BCE) vengono condotti solo  sui mercati secondari,  in base a quote specifiche basate sull’entità  delle  partecipazioni dei singoli stati al capitale  della BCE, e con norme atte a limitarne l’impatto sulla  liquidità del mercato obbligazionario europeo.

Ricapitolando: la BCE non “decide lo spread”. Si  limita a  porre in atto misure  che mantengano il mercato obbligazionario europeo in grado di adempiere ad una delle sue funzioni, quella di garantire i meccanismi di trasmissione della politica monetaria, il  cui unico obiettivo formalizzato ufficialmente è  di mantenere il tasso di inflazione quanto più possibile vicino al target. Il  supporto  ai titoli obbligazionari dei singoli paesi è più un effetto collaterale “desiderato” . L’esplicita determinazione, da parte della BCE,  della quantità degli acquisti di BTP ad una dimensione atta a guidare lo  spread verso un particolare livello, oltre a costituire una chiara violazione del trattato  istitutivo, creerebbe quello che è  comunemente definito un “moral hazard”.
Cosa si intende con moral hazard? Si tratta di un comportamento animato da buoni propositi,  ma diseducativo.  Come, ad esempio, rimborsare indiscriminatamente tutti i possessori di obbligazioni di un entità divenuta insolvente. Il  fine è lodevole: risarcire chi ha perso dei soldi.  Ma  l’effetto è quello di incentivare il pubblico a fare incetta di attività  rischiose ad alto rendimento. Tanto, se poi falliscono, si può chiedere allo Stato il  risarcimento.  Nella fattispecie, la  fissazione dello spread ad un livello basso costituirebbe un incentivo allo stato a far correre la spesa fiscale, accumulando enormi quantità  di debito.  Un errore già commesso ampiamente in passato.

Certo, alle volte commettere “moral hazard” è necessario,  per evitare il collasso del sistema.  Di queste considerazioni le banche estere hanno ampiamente beneficiato nel periodo post crisi (si  pensi alla ricapitalizzazione delle banche statunitensi con la  TARP).

Ma ricorrervi sistematicamente è pernicioso.

Per  concludere, lo spread non è un invenzione dell’establishment, ma una delle  variabili finanziarie che misurano la  salute delle nostre finanze pubbliche e il gradimento degli investitori per  il nostro debito.  La sua importanza non va esagerata nel breve ma nemmeno sottovalutata nel medio periodo.

I mercati non hanno un etica, e non ricattano nessuno. La loro funzione è selezionare gli investimenti e finanziare quelli più produttivi. E’ una funzione che va regolata e guidata, ma non rigettata.

La mission di una Banca Centrale non è,  se non in casi estremi, quella di supportare il  debito  di un paese.  E merita ricordare che quando supporto si rende necessario, esso non è privo di costi per  il  sistema.